Il suono di un racconto, il racconto del Suono

Diciamocelo. Nel cinema chi si occupa del suono – vuoi il fonico di presa diretta, vuoi il montatore del suono, vuoi il sound designer, vuoi il fonico di mix – è sempre un po’ bistrattato. Come se il SUONO fosse una cosa secondaria rispetto alle immagini. Ci sono voluti anni per far sì che nei titoli di testa di un film comparisse almeno il nome del fonico di presa diretta. Ma anche Il fonico di mix, così come il tecnico di foley (o rumorista o sound designer) sono FONDAMENTALI nella creazione di un’opera cinematografica.

Per non parlare della noncuranza di certi registi per i quali il fonico di presa diretta è soltanto quel tizio curioso con un armamentario addosso fatto di zaini, registratore, mixer, cuffie, ricevitori, e che regge la canna da pesca nel tentativo di strappare via il parrucchino all’attore protagonista. “Ok, buona la prima!” urla il regista, “No maestro, per me non è buona!”,  risponde il fonico di presa diretta. E infatti sulla battuta dell’attore sono passati un aereo, una Moto Guzzi, la Linea 2 da Gianturco notoriamente in ritardo ma stavolta puntualissima, il Circo Orfei in tournée, le navi in partenza dal porto e un acuto della Ricciarelli intenta a provare dal suo balcone. “Non fa niente – replica il regista – po’ apparamm’ al missaggio!”

“Po’ apparamm’ al missaggio”, ovverosia “poi al missaggio risolviamo codesti problemi”. Con buona pace e tante bestemmie da parte del fonico di missaggio.

Eccola lì – direte voi – la classica lamentela del fonico col senso di inferiorità. Ma non è così. In 20 anni di carriera ho avuto le mie soddisfazioni, parecchie gratificazioni, il nome nei titoli, riconoscimenti, tante pacche sulle spalle e tanti bacini affettuosi. Ad esempio, qui trovate un po’ di cosette che ho fatto come sound designer e fonico di mix: https://www.giorgiomolfini.com/cinema/

E allora perché questo post?

Cosa sarebbe un film senza il suono? Un film muto, direte voi. Ce ne sono a bizzeffe prima degli anni 30. E’ vero. Ma senza il suono oggi non ci sarebbe “The game of thrones”, serie che amate talmente tanto da riempire le bacheche di Facebook ogni minuto secondo e che il sottoscritto si vanta di non avere mai visto.

Il suono racconta. Il suono parla. Il suono suona. Il suono vive di vita propria. Un minaccioso passo nella notte, amplificato dall’ampiezza della strada, ci fa supporre di essere seguiti; un cigolio di una porta nel silenzio anticipa la mossa dell’assassino; un mare in tempesta, un vento ossessivo, la scarica di un fulmine seguita da un tuono descrivono gli stati d’animo di una scena; lo sciabordio esterno delle onde e lo scricchiolio del legno ci portano all’interno di una imbarcazione.

E il silenzio. Anche il silenzio ha un suono, e bisogna saper ricreare e raccontare anche quello.

Premesse a parte (magari per molti anche superflue), lo scopo di questo post è “raccontare il suono” seguendo quattro esempi cinematografici, quattro film estremamente diversi tra loro che rendono il suono protagonista, necessario e tanto, tanto poetico.

Cominciamo da “Blow out” (1981), bellissimo film dell’hitchcockiano Brian De Palma, che ha per protagonista un tecnico di “foley” (oggi “sound designer”), e cioè quel tecnico del suono che realizza gli effetti per un film: i passi, il vento, una cascata, ad esempio. E proprio durante la registrazione di alcuni effetti nei pressi di un torrente, Jack (interpretato da un bravissimo John Travolta) capta col suo microfono il suono di un’auto che, sbandando, esce fuori strada finendo in acqua. Parliamo ovviamente di un thriller, e di un regista che conosce perfettamente tecnica e linguaggio cinematografico, e che spesso si diverte a far interagire la finzione con la realtà fino alla creazione di un “metacinema”. Il suono è protagonista indiscusso del film che è comunque una dichiarazione d’amore per tutte le maestranze cinematografiche: si parla di trucco, di fotografia, ci sono i famosi split screen tanto cari al regista (lo schermo diviso in due), un piano sequenza circolare con un crescendo d’ansia… Non intendo spoilerare nulla, ma gli ultimi 6 minuti sono un’opera d’arte, sia per la bellissima fotografia di Vilmos Zsigmond nella scena dei fuochi d’artificio (accompagnata dalla splendida musica di Pino Donaggio), sia per la geniale, agghiacciante, intensa inquadratura finale, un pugno nello stomaco (e nelle orecchie) che avrebbe fatto meritare un Oscar a Travolta.

Per chi non lo conoscesse consiglio la visone almeno una volta di “Rosso come il cielo” (2005), un piccolo ma poetico film di Cristiano Bortone che racconta la vita di Mirco Mencacci, uno dei migliori montatori del suono in Italia, cieco dall’età di 10 anni. A parte la bravura di un cast composto in parte da bambini non vedenti (ad eccezione del protagonista Luca Capriotti) che sembrano attori navigati, e a parte la delicatezza del tocco registico di Bortone, mai patetico ma semplice e diretto, il film è un vero e proprio trattato su quanto il suono sia INDISPENSABILE per raccontare una storia, e di quanto sia fantasioso e liberatorio realizzarlo. Vediamo il piccolo Mirco che si serve di un asciugamano roteante per riprodurre il battito d’ali di un gabbiano, di una lastra metallica oscillante per dar la voce a un tuono, di un pennacchio di carta calpestato come rumore dei passi in una foresta. E tutto viene raccontato col tono magico di una fiaba, che ci dice che spesso i veri ciechi siamo noi vedenti. Per inciso, il sound design del film è perfettamente curato da Mencacci stesso.

“Volere volare” (1991) fu (e lo è tutt’ora) una sorpresa atipica per il cinema italiano. Un omaggio di Maurizio Nichetti al cinema di fantasia, prodigioso nella realizzazione tecnica e travolgente nella scrittura. Divertente, innovativo, colorato, poetico, il film parla della storia d’amore tra un rumorista di cartoni animati e un’assistente sociale molto particolare. E qui il suono fa da attore comico, specialmente nella scena in cui il protagonista sonorizza un film porno con suoni da cartone animato. Su questo film non dico nient’altro: va visto.

Ora… datemi del campanilista, del nostalgico, del retorico… non importa, ma voglio chiudere questo post citando come quarto film “Il postino” (1994), l’ultimo gioiello lasciatoci dall’immenso Massimo Troisi. Come tutti ricorderete, nella parte finale del film il postino “si trasforma” in tecnico di foley, e registra i cosiddetti “suoni dell’isola” da inviare al suo amico Neruda. Il vento dei cespugli, il vento della scogliera, le “reti tristi di mio padre”, le onde, le campane col prete, il cuore di Pablito… fino al suono del cielo stellato; una Poesia fatta Suono, raccontata con il suono, dove il suono stesso riesce addirittura a dare la voce alle stelle… Il suono per raccontare la Natura, per descrivere lo scandire delle ore nella vita del postino Mario, le passeggiate sulla spiaggia, il lavoro di suo padre, la nascita del figlio. Mai come in questo caso il suono ha saputo emozionare più di una poesia scritta, “complice indesiderata” la scomparsa prematura del nostro amico Massimo.

Necessario per raccontare, emozionante, fantasioso nella realizzazione, poetico. Il Suono è indubbiamente uno dei protagonisti di un racconto… il fonico di presa diretta si fa un mazzo così in piedi per 8 ore tra clacson, cani che abbaiano e aerei che passano… il sound designer trascorre ore e ore a registrare e realizzare suoni che poi dovrà sincronizzare con le immagini… il fonico di mix dovrà passare in rassegna tutto il calendario dei Santi per equilibrare i suoni tra loro e risolvere molte scene registrate male, per colpa di colleghi incompetenti o anche di registi frettolosi… e per chi non capisca tutto questo vale davvero il detto “Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”.

 

 

 

 

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